E nell'alba del settimo giorno
eccoli ergersi, spinti dal verbo fittizio,
davanti a fabbricati illuminati,
schiere di uomini e donne che,
ammaestrando la prole,
comprano, pagando il tempo
a chi, senza un sorriso,
gli vende un'illusione.
Storie Sconclusionate
"Questa è una raccolta di opere di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi,avvenimenti e pensieri sono il frutto dell’immaginazione infernale e angosciata dell’autore pertanto non devono essere considerati reali. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi, organizzazioni, o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.
Tuttavia, chiunque trovasse somiglianze nella propria vita, dovrebbe evitare di andare oltre.
Qui inizia la Terra del Pensiero, fate attenzione al mutar del paesaggio o sciagure a voi se vi perdete.
venerdì 25 aprile 2014
giovedì 17 aprile 2014
Poesia Sconclusionata 21
Come acqua che mutando scompare
dalla nuda roccia calorosamente avvolta
da un sole impazientemente mortale.
Senza che l'ombra se ne fosse accorta
vaga nel vento dimenandosi sola
fino a raccogliersi nel cielo, dove sboccia
per ricader sulla terra in un'altra ora
a ricoprir ancora, la nuda roccia.
dalla nuda roccia calorosamente avvolta
da un sole impazientemente mortale.
Senza che l'ombra se ne fosse accorta
vaga nel vento dimenandosi sola
fino a raccogliersi nel cielo, dove sboccia
per ricader sulla terra in un'altra ora
a ricoprir ancora, la nuda roccia.
sabato 3 agosto 2013
Pensieri Sconclusionati 6
Chi sei sconosciuto passante che cammini li vicino a me?
Io non lo saprò mai..
Sei come uno spettro..
Fai parte della scenografia di sfondo di questo mondo..
Esisti soltanto in quel frangete..
Solo questo ci spetta..
Solo quell'istante..
Nulla di più.
Eppure tu esisti..
Da qualche parte tu vivi..
Mangi.
Guardi la televisione.
Pensi.
Ti arrabbi.
Sei felice.
Ami.
In un infinità di stelle che io non vedrò mai.
Eppure loro brillano.
Bruciano.
Producono energia.
Illuminano mondi
Irrorandoli della loro luce..
Ma qui, emanano solo un tenue bagliore.
Soffocato dalla distanza, tutto quello che rimane è un leggero puntino.
Io non lo saprò mai..
Sei come uno spettro..
Fai parte della scenografia di sfondo di questo mondo..
Esisti soltanto in quel frangete..
Solo questo ci spetta..
Solo quell'istante..
Nulla di più.
Eppure tu esisti..
Da qualche parte tu vivi..
Mangi.
Guardi la televisione.
Pensi.
Ti arrabbi.
Sei felice.
Ami.
In un infinità di stelle che io non vedrò mai.
Eppure loro brillano.
Bruciano.
Producono energia.
Illuminano mondi
Irrorandoli della loro luce..
Ma qui, emanano solo un tenue bagliore.
Soffocato dalla distanza, tutto quello che rimane è un leggero puntino.
Poesia Sconclusionata 20
Strozzati con le tue stesse parole.
Cavati gli occhi con l'affilata menzogna che rigurgiti meschinamente.
Ingoia la lingua.
Cicatrizza le labbra.
Non proferir parole al vento,
egli ha molti amici e molte spie.
Occhi che osservano.
Orecchie che catturano.
Non pronunciar parole alla Terra,
essa è indiscreta ed egoista,
si nutre della tristezza celata dietro simboli umani.
Le Donne brillano al sole,
come insulto agli uomini,
Che altro non hanno se non l'istinto.
Non mormorar parole tra gli Alberi.
Loro sanno.
Loro lo sanno da sempre.
Cavati gli occhi con l'affilata menzogna che rigurgiti meschinamente.
Ingoia la lingua.
Cicatrizza le labbra.
Non proferir parole al vento,
egli ha molti amici e molte spie.
Occhi che osservano.
Orecchie che catturano.
Non pronunciar parole alla Terra,
essa è indiscreta ed egoista,
si nutre della tristezza celata dietro simboli umani.
Le Donne brillano al sole,
come insulto agli uomini,
Che altro non hanno se non l'istinto.
Non mormorar parole tra gli Alberi.
Loro sanno.
Loro lo sanno da sempre.
Poesia Sconclusionata 19
Ticchettava,
Gli ingranaggi arrugginiti giravano.
Sempre più lentamente.
Sempre con più fatica.
Uno scatto alla volta.
Accompagnati da un rumore sordo e secco,
che si espandeva in questa stanza buia.
Occupava le orecchie.
La mente pervasa da quel rumore insidioso,
agonizzante di agonie meschine,
cercava il modo di eliminarlo.
Ma più si sforzava,
e più si diceva di cancellarlo.
E più entrava in profondità.
Sempre di più.
Ad un passo dal punto zero.
La mia mente ticchettava e ticchettava.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Gli occhi spalancati osservavano un punto
dove una volta c'era il soffitto.
Ma che in quel momento era macchiato di buio.
Le palpebre paralizzate.
La cornea secca.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Ingranaggi sempre più vicini.
Ticchettio sempre più intenso.
La saliva ferma tra la bocca e l'esofago.
In mezzo.
Senza scendere.
Senza salire.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
L'unico rumore sovrano.
L'unico collegamento con la realtà.
Perso in una stanza buia,
Ed il tempo è l'unica cosa che mi è rimasta.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Gli ingranaggi arrugginiti giravano.
Sempre più lentamente.
Sempre con più fatica.
Uno scatto alla volta.
Accompagnati da un rumore sordo e secco,
che si espandeva in questa stanza buia.
Occupava le orecchie.
La mente pervasa da quel rumore insidioso,
agonizzante di agonie meschine,
cercava il modo di eliminarlo.
Ma più si sforzava,
e più si diceva di cancellarlo.
E più entrava in profondità.
Sempre di più.
Ad un passo dal punto zero.
La mia mente ticchettava e ticchettava.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Gli occhi spalancati osservavano un punto
dove una volta c'era il soffitto.
Ma che in quel momento era macchiato di buio.
Le palpebre paralizzate.
La cornea secca.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Ingranaggi sempre più vicini.
Ticchettio sempre più intenso.
La saliva ferma tra la bocca e l'esofago.
In mezzo.
Senza scendere.
Senza salire.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
L'unico rumore sovrano.
L'unico collegamento con la realtà.
Perso in una stanza buia,
Ed il tempo è l'unica cosa che mi è rimasta.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
lunedì 24 giugno 2013
Storia Sconclusionata 19
Sapevo che presto sarebbe arrivato.
L'ho sentito subito, appena la porta di casa sua si chiuse alle mie spalle.
Già rideva, nella mia mente, mentre lei si sistemava la gonna, tutta bagnata di un vizio carnale.
Ed io impotente, guardandola nella sua bellezza peccatrice, diedi al demone il controllo della situazione.
Le frustrate presero a colpire dentro i tagli antichi e profondi di ricordi innominabili.
Un ora.
Un giorno.
Chiusi ogni porta.
Spensi ogni luce.
Diventai invisibile.
Intoccabile.
Insensibile.
Percorsi la strada che portava alla mia casa cercando nella nicotina un compagno premuroso, ed ogni volta che la punta della frusta schioccava lacerando la carne, l'acceleratore premeva più veloce, lasciando che i giri del motore salissero in preda alla rabbia più macabra.
Lasciai che la macchina urlasse per me per tutto il tragitto.
La musica non era che un rumore distante che volgeva all'annullamento.
Le mie dita sapevano ancora di lei.
Le mie labbra erano un morsa.
Non mi era rimasto altro da fare.
Il controllo dei miei pensieri era tutto suo.
Avido bastardo di un demone.
Prese ogni ricordo, e lo incendiò tra sordi sospiri e grasse risate.
Con la punta del ferro arroventato incise nel mio cuore vergogna nera sanguinate.
Con la punta infernalmente incandescente, infilzò ogni speranza, che nel fondo, dava ancora cenni di vita.
Uccise ogni cosa.
L'anima pianse.
L'uomo diventò di ghiaccio.
Roccia e Terra lo coprirono.
E da li, nessuno, lo trovò mai più.
L'ho sentito subito, appena la porta di casa sua si chiuse alle mie spalle.
Già rideva, nella mia mente, mentre lei si sistemava la gonna, tutta bagnata di un vizio carnale.
Ed io impotente, guardandola nella sua bellezza peccatrice, diedi al demone il controllo della situazione.
Le frustrate presero a colpire dentro i tagli antichi e profondi di ricordi innominabili.
Un ora.
Un giorno.
Chiusi ogni porta.
Spensi ogni luce.
Diventai invisibile.
Intoccabile.
Insensibile.
Percorsi la strada che portava alla mia casa cercando nella nicotina un compagno premuroso, ed ogni volta che la punta della frusta schioccava lacerando la carne, l'acceleratore premeva più veloce, lasciando che i giri del motore salissero in preda alla rabbia più macabra.
Lasciai che la macchina urlasse per me per tutto il tragitto.
La musica non era che un rumore distante che volgeva all'annullamento.
Le mie dita sapevano ancora di lei.
Le mie labbra erano un morsa.
Non mi era rimasto altro da fare.
Il controllo dei miei pensieri era tutto suo.
Avido bastardo di un demone.
Prese ogni ricordo, e lo incendiò tra sordi sospiri e grasse risate.
Con la punta del ferro arroventato incise nel mio cuore vergogna nera sanguinate.
Con la punta infernalmente incandescente, infilzò ogni speranza, che nel fondo, dava ancora cenni di vita.
Uccise ogni cosa.
L'anima pianse.
L'uomo diventò di ghiaccio.
Roccia e Terra lo coprirono.
E da li, nessuno, lo trovò mai più.
martedì 11 giugno 2013
Storia Sconclusionata 18
Avevamo
parcheggiato il nostro furgone al margine di una stradina isolata,
fatta di ciottoli antichi, non troppo lontano dalla casa che portava
il numero 13.
La strada sorgeva in mezzo a case antiche e in via di decadenza. Ogni complesso residenziale era dipinto con colori diversi ma tutti sembravano provenire da le stesse tonalità di grigio.
Sul marciapiede, vecchi e remoti cipressi sorgevano alti e immobili, disegnando sulle facciate delle case ombra dalle sembianze demoniache.
Il furgone era parcheggiato dietro ad una fila di macchine, questo ci permetteva di non attirare troppa attenzione e l’altezza del mezzo ci permetteva di osservare a centottanta gradi la strada.
Posso ammettere che il colore poteva recare timore oltre sospetti, il nero solitamente è un qualcosa che genera nell’uomo senso di mistero e di cautela, ma come vedrete poi, la nostra, oltre a essere una perversa vendetta, era anche una questione di stile e di teatralità.
La tensione vibrava le corde dell’aria.
I secondi divennero minuti e i minuti divennero ore.
Era da più di un ora che stavamo aspettando, l’adrenalina e l’ansia erano diventate qualcosa di concrete tanto da prendere le sembianze di movimenti incontrollati, come l’azione di continuare a guardare l’orologio ogni cinque minuti. Il tutto era alimentato dal irrequietezza più intensa che avessi mai provato in vita , e percepivo, come un sensitivo, anche quella dei miei compagni.
Era la nostra prima volta che facevamo una cosa simile, nessuno aveva mai fatto cose di questo livello. Non era nostra la scelta di finire a questo punto. L’estrema situazione che ci ha accompagnato nella nostra vita, ci ha spinto a farlo.
Nessuno voleva macchiarsi, ma eravamo stanchi di questo schifo e, alla fine, divenne una questione “morte tua vita mea”.
Eravamo in tre, uno stava al posto guida, mentre noi due, cioè, me e un mio amico, ce ne stavamo nel retro del furgone. Ogni tanto uno di noi alzava lo sguardo a sbirciare la strada.
In giro non c’era nessuno, la strada spettava al silenzio e alla notte.
Una calma inquietante che solo una notte gelida di febbraio può regalarti.
Il vento soffiava un vento assiderato. Era venuto a benedirci con le sue bestemmie urlanti, facendo chinare gli alberi al nostro cospetto, come un ringraziamento di ciò che stavamo per compiere.
La mia mente generava pensieri astratti. La natura era dalla nostra parte.
Un freddo insidioso si assestò nel furgone, tormentandoci i muscoli, che non smettevano di tremare.
Mentre pazienti aspettavamo il nostro momento, ripercorremmo minuziosamente, il nostro piano.
Un piano efficiente, fatto di elaborazioni complesse e coordinate con una precisione maniacale, frutto d’un ossessione molesta capace di tenerti sveglio nelle ore più profonde della notte.
Oramai era mesi che programmavamo questo colpo, questa familiare vendetta , questo desiderio morboso, che logorerebbe la mente di chi non controlla i suoi pensieri, portandolo inesorabilmente alla pazzia più cieca.
Il nostro obbiettivo era un ragazzo che conoscevamo bene, (Anche se la parola bene, scritta nero su bianco in queste pagine, perde completamente ogni aspetto della sua essenza.) ma non così tanto da sapere le sue abitudini e i suoi spostamenti, e quindi lo pedinammo sia di giorno che di notte, come neri lupi delle montagne che studiano la preda prima di cacciarla. La stanza dove progettavamo questa virtuosa vendetta, che, altro non era che la mia cantina, era tappezzata di fotografie dove lo ritraevano intento ed ignaro nella sua quotidianità. Avevamo anche appeso una mappa della città dove segnavamo, scrivendo in parte l’orario e la data, i luoghi da lui più frequentati. Ogni minuscolo aspetto della sua vita era scritta da qualche parte in mezzo a tutte le scartoffie e documenti che riempivano la mia cantina.
Conoscevamo universalmente ogni cosa di questo individuo, lui invece, ignorava interamente tutto.
“ Sta arrivando…” Bisbigliò l’autista senza volgere la testa.
Alzai leggermente lo sguardo e sbirciai fuori, non per mancanza di fede, ma perché i miei occhi e il mio spirito volevano vederlo.
Alla vista di quell’ignobile, la rabbia mi morse lo stomaco, contraendolo come se fosse stato chiudo dentro una trappola d’acciaio.
Rivolsi uno sguardo complice al mio compagno facendogli un ammicco con la testa, lui contraccambiò consapevolmente.
Il momento era arrivato.
Il momento che stavamo aspettano con tanta fissazione da molti mesi a questa parte, era definitivamente arrivato. Noi eravamo qui, e lui era esattamente dove doveva essere.
Ispirai ed espirai velocemente, come se volevo rimuovere tutta l’ansia in un solo respiro, ci coprimmo il volto con i passamontagna, sui quali, avevamo disegnato il sorriso di un teschio, e celammo, dietro lenti scure, i nostri occhi. La teatralità era indispensabile per la riuscita del colpo. Erano, come piaceva chiamarlo a noi, i nostri disegni di guerra.
Come dei selvaggi con il volto pitturato per insinuare il terrore nella mente del nemico, volevamo trasmettere la paura più acuta, la paura dell’indefinibile.
Apparivamo come spettri di incubi innominabili, che si muovono di ombra in ombra. Silenziosi guerrieri del più decaduto esercito del male pronto a fare il dovere del supremo signore oscuro.
Eravamo tutti adibiti ad un compito particolare: L’autista guidava, il mio amico era incaricato di stordirlo con una mazza e io di addormentarlo definitivamente attraverso un fazzoletto imbevuto di cloroformio.
Ovviamente, all’origine del piano, ne io ne gli altri sapevamo qualcosa riguardante i rapimenti di persone, quindi, con un po’ di ricerche e un po’ di fantasia, trovammo il modo più efficace di realizzare questa impresa. Intere notti vennero spese al addestramento del coordinamento del progetto, attraverso allenamenti strazianti e snervanti degne solo dell’esercito spartano. L’autista personificava l’obbiettivo e dopo una serie di studi teorici e pratici, trovammo il modo più rapido e fluido per rapire una persona.
Ora, non pensavamo ad altro che alla nostra coordinazione, arrivai addirittura a sognarmele. Mi svegliavo nel cuore della notte e mi trovavo in piedi cercando invano di afferrare qualcuno.
Un ossessione che violentava anche il mio subconscio.
Aspettammo che avanzasse fin davanti alla porta di casa sua.
In media ci impiegava all’incirca dieci secondi ad aprire la porta, per via delle due serrature che la chiudevano, mentre Il nostro furgone, una volta avviato, ce ne avrebbe impiegati solo cinque a raggiungerlo.
Mi posizionai contro il portellone laterale, pronto ad aprirlo.
Il mio compagno si collocò davanti ad esso, con la mazza in mano.
L’uomo inserì la chiava nella prima serratura, e l’autista contò tre secondi, che erano il numero degli scatti della serratura, poi accese il furgone e partii veloce, lacerando il silenzio di quella nottata lugubre con uno fischio rabbioso delle gomme.
Lui si voltò appena, guardandoci di sfuggita, e continuò ad aprire la serratura, ma quando il furgone inchiodò davanti con rumore cupo e sordo, si vide il suo corpo irrigidirsi tutto.
Appena aperto il portellone, il mio compagno saltò giù e gli diede un colpo in testa con la mazza, facendogli sbattere la testa contro la porta. Mentre rimbalzava da quel colpo, stordito e confuso, io prontamente gli misi il fazzoletto imbevuto di cloroformio davanti alla bocca, mentre il mio amico, immediatamente, iniziò a legargli i piedi.
Dalla paura, quell’essere schifoso, fece ampi e profondi respiri e mentre, ancora lievemente si dibatteva, lo trascinammo dentro il furgone, che ripartii quietamente come se nulla avesse disturbato quella notte.
Sparimmo accompagnati dalle tenebre.
Arrivammo
in un bosco tetro, spoglio e gelato.
Quel bosco sembrava il figlio dell’incubo.
E il padre del delirio.
Un posto deformato dalla notte, ci regalava uno scenario oscuro, come se fossimo prossimi ai cancelli dell’inferno.
Solo la luna ci illuminava nei nostri intenti, mentre le stelle, impotenti, osservavano in silenzio.
Trascinammo fuori quella persona che una volta avremmo preferito evitare, ma che in quel momento, con mani e piedi legati apparteneva a noi.
Lo legammo con delle cinghie ad una specie di barella improvvisata, e mentre l’autista, con la torcia, faceva strada, io e il mio compagno lo trasportavamo.
Sdraiato su questa barella di metallo chirurgico, fredda come la pelle di un morto, cercava di dibattersi per liberarsi, ma era troppo stordito e sfinito per fare un qualsiasi movimento che potesse recarci preoccupazione, e dunque, si limitò semplicemente a muovere la testa da destra a sinistra producendo dei silenziosi gemiti, soffocati dal nastro che gli tappava la bocca.
I nostri passamontagna a teschio, continuavano a celare la nostra identità alla materialità del mondo.
I nostri occhiali da sole occultavano gli specchi dell’anima.
Era difficile, orientarsi dietro le lenti scure, poiché la debole intensità luminosa della luna era schermata e senza la torcia dell’autista ci saremo potuti fare veramente male.
Alla fine arrivammo in un spiazzo circondato da alberi spogli e morti, come se fossero degli tetri spettatori che silenziosamente morti, aspettavano di vedere il grande colpo di scena.
Tutto era stato sistemato due notti prima: al centro di questo spiazzo, sopra una terra fangosa e desolata, stava una sedia di legno con i bracciali ai quali avevamo attaccato delle cinghie. In parte ad essa stava un tavolo da campeggio, di quelli che si smontano e diventano una sorta di valigetta con tanto di maniglia, sopra, c’erano attrezzi di ogni genere, venduti a noi come oggetti del fai da te e usati da noi come strumento di tortura e di morte. C’erano pinze, trapani, siringhe, fiamma ossidrica, bisturi, coltelli e una motosega.
Il tutto ordinato in maniera maniacale, perfettamente allineati e ben disposti secondo la loro grandezza.
Mentre l’autista, illuminava la sedia, io e il mio compagno slegammo dalla barella questo essere schifoso, che nel momento in cui senti le cinghie allentarsi cerco di scappare, ma un pugno violento del mio amico lo colpii in pieno sul naso, stordendolo nuovamente. Alzammo il corpo di peso e lo legammo alla sedia. Poi, ne presi un’altra e la posizionai davanti a lui. Il mio compagno si sistemo alla mia destra, in parte agli attrezzi di tortura, mentre alla mia sinistra, con un fucile scarico in mano, stava l’autista immobile. Io mi sedetti sulla sedia ed aspettai che la lucidità di quella mente insignificante ritornasse in vita.
Avevamo accesso delle torce in modo che sia noi, che lui ci potevamo vedere chiaramente.
Presi a dargli qualche schiaffo leggero per parlo rinvenire. Quando apri gli occhi passarono tre secondi prima di rendersi conto in che situazione fosse, poi cominciò a tremare.
Il nastro copriva ancora la sua bocca e non l’avremo tolta per tutta la seduta, poiché nel suo passato aveva già detto troppo.
Era bloccato, e l’unica cosa che poteva fare era ascoltare, vedere e farsi consumare dalla paura.
Non era lui che doveva parlare, no. Lui doveva solo ascoltare.
I suoi occhi si muovevano nervosamente passando dall’autista, a me e al mio compagno in un moto che all’apparenza sembrava dovesse durare in eterno.
“ Guardami.” Dissi.
Lui posso i suoi occhi iniettati di orrore sulle mie lenti scure.
Cercò di dire qualcosa, ma l’unica cosa che usci erano rantoli di paura folle che mai aveva provato fino a quel momento.
La sua testa si scuoteva come un pesce fuori dall’acqua, i suoi versi erano troppo deboli per infastidirci.
Gli appoggiai il mio dito dove, dietro il nastro, c’erano dovute essere le sue labbra.
“ Ascoltami.” Dissi.
“ Tu non sai chi sono, tu non mi conosci, tu non ti ricordi di me, anche se dovessi togliere questo passamontagna, sono sicuro che non sapresti riconoscere la faccia che si cela dietro, ne la mia, ne quelle dei due miei amici qui dietro. Ma io so chi sei, e così anche loro. Sappiamo chi sei, o si… Ti conosciamo bene sai? Ci ricordiamo tutto di te. Dalla scuola ai nostri sabato pomeriggio in centro. La mia anima, la mia vita rovinata dall’insicurezza si ricorda bene di te. Non ti abbiamo mai dimenticato.”
Alzai la mano e il mio compagno mi porse una lama arrugginita.
Alla vista della lama, l’esser schifoso, si mise a frignare e a tremare.
“ Lascia che ti racconti una storia, non è una storia vera dall’inizio alla fine, ma è basata su tanti fatti di tante persone, realmente accaduti, e queste persone, a cui hai rovinato la vita finora, potrebbero riconoscersi tranquillamente. Questa è una storia che racchiude tutte le storie di quelle persone che ora, noi, in questa macabra azione, vendichiamo. Ma prima devo essere sicuro che sei lucido..”
Feci un cenno con la mano e il mio compagno rispose sferrando un pugno all’altezza dello stomaco di quel essere ripugnante.
“ Ci sei? Sei con noi? Mi stai ascoltando?”
Vedevo nei suoi occhi il dolore invadergli la testa, lo stordimento, le botte, il posto, i mostri che aveva davanti lo stavano mandando nel panico più assoluto.
“ Se mi stai ascoltando veramente, fammi cenno con la testa, altrimenti provo ad aprirti meglio le orecchie.”Lui rimase nel più totale terrore che solo negli incubi si può trovare un simile intensità.
Guardai il mio compagno. “ Dagliene un altro.”
Lui si irrigidì tutto, mentre il mio amico avanza a pugno serrato.
Mi guardò, producendo piccoli urli strozzati per attirare la mia attenzione e freneticamente dondolava la testa su e giù in segno di aver compreso.
Fermai il mio compagno.
“ Bene!” Dissi battendo le mani come se fossi pacifico e felice.
“Molto bene…”
“ Questa è la storia, di un ragazzo di otto anni, molto sensibile alla vita e con una grande voglia di studiare e apprendere. Questo ragazzo frequentava una scuola dove c’erano oltre a lui, molti e molti bambini. Alcuni calmi, altri agitati e giocosi ed infine quelli violenti, quelli che durante la ricreazione trovavano un qualsiasi pretesto per schernire e umiliare i compagni più deboli. Il ragazzo, essendo un po’ più sensibile a questo genere di cose, cercò da subito di girare al largo. Lui non voleva problemi, voleva solo leggere e starsene seduto pacificamente sulla sua panchina. Ma alla fine, come un fiume furioso, il ragazzo violento spezzò la diga immaginaria del ragazzo, per inondarlo dell’umiliazione più bruta e crudele. Oh… Quante lacrime ha versato quel ragazzo. Quanti pianti silenziosi ha fatto. Quanta paura ha provato, ogni volta che varcava la soglia della scuola. Andò avanti così, per tutti gli anni delle elementari facendo provare ad un bambino, semplicemente tranquillo, la paura più folle che un bambino non dovrebbe provare. Alla fine le elementari finirono e per il bambino si accese una speranza di una nuova vita nelle scuole medie, fatta di pace e tranquillità. Ma, a credere che tutto ciò fosse possibile, commise l’errore più grosso della sua vita. Perché anche li, un altro ragazzo violento lo stava aspettando per spezzare, oltre a lui, anche le sue vane speranze.
Ora l’umiliazione era diventata anche violenza, e le botte insieme alle parole distrussero la psiche di quel povero ragazzo, che altro non voleva se non una convivenza comune.
Iniziò a guardarsi allo specchio, sempre di più, sempre più intensamente, cercando di capire che cosa ci fosse in lui di sbagliato. E alla fine giunse a questa conclusione, che lui era sbagliato. Lui era un errore. Che la gente lo detestava, lo umiliava , lo picchiava. Lui era brutto e la sua immagine riflessa faceva solo schifo.
Ecco cosa un ragazzo di 13 anni pensava di se stesso mentre con le speranza oramai perse, varcava la soglia delle scuole superiori.”
Qui mi fermai. Senza smettere di guardarlo da dietro le mie lenti scure Iniziai a fagli roteare davanti la lama arrugginita.
“ Le hai mai fatte le superiori?” Chiesi. “ Ovviamente no, le persone come te, a quell’età, vengono attratte e prese dalla strada fino a trasformarvi in selvaggi decerebrati. Un po’ di pratica alle elementari e alle medie e poi via, verso la strada, i crimini e le risse, ed è qui che viene il bello di tutta la storia: Il ragazzino alle superiori inizio a sentirti leggermente più sicuro di se, ovviamente il fatto era dato dalla mancanza di ragazzi violenti nella sua scuola. Conobbe finalmente qualcuno con cui condividere le giornate, e man mano che l’autostima tornava anche la voglia di uscire per le strade del centro veniva. E il ragazzo, ancora una volta, si era illuso di essere al sicuro. Un giorno, mentre da solo aspettava l’autobus che l’avrebbe portato a casa, si affiancano a lui tre tipi. Lui quella categoria la conosceva già. Se li ricordava tutti. Sapeva riconoscerli. Quelle persone facevano tornare alla mente del ragazzino l’incubo delle scuole elementari e medie. E quei tre ragazzi sapevano riconosce la categoria a cui apparteneva il ragazzo.
I tre iniziarono da prima a prenderlo in giro, poi le parole divennero più volgari e alla fine, mentre le altre persone si giravano dall’altra parte facendo finta di non guardare, lo pestarono fino a rompergli il braccio. OH… il ragazzino si ricorda ancora il dolore e quell’infinito rientro a casa fatto di agonia e pianti smorzati. E si ricorda il pronto soccorso, il ricovero e l’operazione. La riabilitazione fisica duro sei mesi. La riabilitazione psicologica non avvenne mai. Mentre i tre ragazzi, dopo quell’ atto di violenza, continuarono a farne degli altri, il ragazzino si chiuse definitivamente in casa. I genitori erano troppo impegnati per curarsi di lui, e avendo disponibilità economiche pensavano che, facendogli prendere il taxi ad andare a scuola, tutto si sarebbe sistemato, ma no. Questo non fece che inabissare ancora di più l’animo di quel ragazzo. Divenne nero. Cinico. L’unico conforto che riuscii a trovare fu nei libri, nella scienza e nel sapere. Andò all’università, rimanendo schivo e asociale con le persone. Ovviamente per lui erano tutti nemici che volevano solo fargli del male.
Quel ragazzo, non si riprese più, e dopo due anni dalla laurea si suicidò perché aveva smesso di credere totalmente in se e nella sua vita. Fine della storia.”
A quel punto, il pugno del mio compagno lo colpii in piena faccia facendola voltare violentemente. Talmente violento che per un attimo credevo che gli avessimo spezzato il collo.
Una bollente rabbia mi sfiorò la nuca, facendomi alzare di scatto dalla sedia.
Persi ogni controllo. Tutto quello che avevo accumulato in tutti questi anni, esplose nella pazzia più selvaggia.
“ Tu non ti ricordi di me!!” Urlai
Presi la sedia e la feci volare sopra la sua testa.
“ Tu non ti ricordi di me! Tu non ti ricordi di come mi hai trattato! Tu non ti ricordi della violenza che mi hai fatto subire! Tu non ti rendi conto di quello che hai generato dentro di me!”
Il mio pugno gli centrò lo stomaco. Lui abbassò la testa dal dolore.
“ E sai perché non ti ricordi di me? O di lui, o di lui? Lo sai perché? Perché siamo in tanti! Perché i tuoi pugni hanno incontrato tante facce, tante ossa! I tuoi pugni hanno generato tanta paura! Ci hai distrutto psicologicamente! Per colpa tua, non ho creduto più in me stesso! Per colpa tua ho passato i miei anni migliori a nascondermi! A soffrire! A piangere! A scomparire!”
Gettai un urlo al cielo, e gli sferrai un altro pugno.
Sentivo la rabbia, la violenza scorrermi nelle vene!
La vendetta grondava sangue rappreso di tutte le vittime silenziose!
“ Noi rappresentiamo tutti quelli a cui hai rovinato la vita! Noi siamo in fantasmi venuti a porre giustizia nel nome degli oppressi!”
L’autista e il mio compagno iniziarono a tenergli ferma la mano destra.
Io andai al tavolo e presi un seghetto.
La mia voce, tornò calma. Pacifica. Tranquilla. Paurosa.
“ Oh… Quella mano, come me la ricordo bene. Quante volte ha colpito il mio naso, il mio stomaco, la mia schiena. Si… Me la ricordo bene. Quella mano è uno strumento del male e dobbiamo levarla. “
Andai davanti a lui, e mi accucciai per guardarlo negli occhi.
“ Tu credi che io sia pazzo vero? Beh, hai ragione. Sono pazzo. Per quanti anni ti ho pensato. Per quanti anni ho bramato questa vendetta. Oh… si… Tu mi hai reso pazzo. Tu, tu che ti credi più forte di me, perché sai picchiare la gente come una scimmia, come una animale… Ma ti voglio aggiornare su una cosa Tarzan, non devi mai sottovalutare la gente che studia. La gente che studia è molto più pericolosa della gente che ha vissuto in strada. E lo sai perché? Perché lo studiare ti rende astuto, ti rende un cacciatore, ti rende intelligente. E se il sapere che hai appreso, lo volgi per fare del male, allora, e dico solo allora, potrai servire il diavolo in persona.”
Recuperai un laccio emostatico e glie lo legai ben saldo appena sopra il polso.
Mentre toccavo il suo polso dissi: “ Tu sai, che quando, per paura della gente come te, mi sono chiuso in casa, ho studiato medicina? Eh vero! L’ho studiata tanto. Sai, ora mi sono anche laureato in medicina! Ora sono un dottore!! Sai, a parte le malattie, in medicina, ti insegnano anche a fare delle ottime amputazioni riuscendo a tenere in vita il paziente. Potrei amputarti tutti gli arti senza dissanguarti se lo volessi. Potrei farti arrivare anche ad ottant’anni. Ma no. Non è quello che voglio. Quello che voglio è la tua mano destra, ed ora, se permetti, me la prendo.”
Lui cerco istintamente di allontanarsi dalla sega che avevo in mano, ma era completamente immobile e l’unico gesto che fece fu di allontanare la testa.
“ Guardatelo come si allontana! Come un animale. Si, come uno schifoso animale! Perché altro non sei.”
La sega entrò nella carne e presto sentii l’osso del polso che faceva resistenza con la lama dentata, spinsi più forte mentre sentivo urli di agonia strazianti soffocate dietro il nastro adesivo.
Continuai finché non si stacco del tutto. Il sangue usciva a getti e presto si riverso per terra, creando una piccola pozza.
Andai al tavolo e presi la fiamma ossidrica.
L’usai per arroventare un coltello dalla lama spessa.
“Cauterizzazione. Quello che stai per subire si chiama cauterizzazione. Questa tecnica viene impiegata per arrestare fuoriuscite di sangue durante alcuni interventi chirurgici. Bruciando il tessuto viene prodotto calore il quale produce la coagulazione delle proteine dei tessuti organici circostanti la ferita, producendo così un effetto emostatico. Non trovi che sia magnifico il sapere?”
Mi girai verso l’animale e lui era svenuto. Feci cenno al mio compagno.
Lui gli tirò un pugno nei reni, gli prese la testa e gli disse di restare sveglio.
Quando vide il coltello arroventato, andò in iperventilazione. Poi, al momento in cui il coltello toccò la ferità svenne di nuovo dal dolore.
I fumi della carne arsa salivano in aria e mi riempivano le narici di un odore duro, aspro ma che sapeva di buono.
Sentivo la soddisfazione percorrermi il corpo come mai prima d’ora avevo provato.
Nemmeno alla mia laurea provai una simile sensazione.
Il mio cuore pompava e pompava e pompava. Sentivo una perversa felicità attraversarmi dentro.
La mia vendetta era quasi compiuta ed io ero esattamente dove volevo stare.
Davanti a lui completamente agonizzato e io con il coltello in mano, l’unica cosa che mi veniva era ridere. Iniziai a ridere trascinando dentro l’autista e il compagno.
Le risate risuonarono per tutta la foresta percorrendo ogni albero, ogni ramo, ogni filo d’erba.
Alla fine, quando l’animale si riprese, noi avevamo già sgomberato tutto a parte la sedia dov’era seduto.
Intorno a lui non c’era traccia di sangue e tutto era stato ripulito nella maniera più precisa.
Prima di partire, mi inginocchiai davanti a lui.
“ La tua mano,” Dissi. “ La tua mano rimarrà a noi. Ci appartiene. Ce lo devi.”
“Ora, non voglio essere l’autore del tuo destino, è giusto che ognuno di noi trovi da solo la propria strada. Come farai tu, sempre se riuscirai a liberarti. Noi ti lasciamo qui, per darti il tempo di pensare a tutte le tue colpe e cercare un modo ti espiarle. Patirai ed infine, se sarai degno di vivere, farai tutto quello che è necessario per tornare a casa.”
Tolsi gli occhiali e per la prima volta lui vide i miei occhi.
“ E se, tornato a casa, troverai la tua vecchia compagnia, tu digli che gli spettri sono in giro e che sappiamo chi siete. Tutti voi. Non fate più cazzate contro chi è più debole, altrimenti la gente inizierà a sparire e ci prenderemo le vostre mani e poi, continueremo con quelle dei vostri cari. Sono stato chiaro?”
Lui abbozzò un cenno. Ma il terrore era ancora signore assoluto nella sua mente.
Presto si sarebbe calmato ed avrebbe trovato un modo per tornare a casa.
D’altronde se non ci riesce un animale, chi può riuscirci?
Salii sul furgono con un senso di onnipotenza.
Una tale soddisfazione da procurarmi dei brividi.
Ogni cosa intorno a noi era come se ci appartenesse.
Il momento era nostro.
In quel preciso istante la terra era tutta nostra.
E si, gli spettri sono ancora in giro.
La strada sorgeva in mezzo a case antiche e in via di decadenza. Ogni complesso residenziale era dipinto con colori diversi ma tutti sembravano provenire da le stesse tonalità di grigio.
Sul marciapiede, vecchi e remoti cipressi sorgevano alti e immobili, disegnando sulle facciate delle case ombra dalle sembianze demoniache.
Il furgone era parcheggiato dietro ad una fila di macchine, questo ci permetteva di non attirare troppa attenzione e l’altezza del mezzo ci permetteva di osservare a centottanta gradi la strada.
Posso ammettere che il colore poteva recare timore oltre sospetti, il nero solitamente è un qualcosa che genera nell’uomo senso di mistero e di cautela, ma come vedrete poi, la nostra, oltre a essere una perversa vendetta, era anche una questione di stile e di teatralità.
La tensione vibrava le corde dell’aria.
I secondi divennero minuti e i minuti divennero ore.
Era da più di un ora che stavamo aspettando, l’adrenalina e l’ansia erano diventate qualcosa di concrete tanto da prendere le sembianze di movimenti incontrollati, come l’azione di continuare a guardare l’orologio ogni cinque minuti. Il tutto era alimentato dal irrequietezza più intensa che avessi mai provato in vita , e percepivo, come un sensitivo, anche quella dei miei compagni.
Era la nostra prima volta che facevamo una cosa simile, nessuno aveva mai fatto cose di questo livello. Non era nostra la scelta di finire a questo punto. L’estrema situazione che ci ha accompagnato nella nostra vita, ci ha spinto a farlo.
Nessuno voleva macchiarsi, ma eravamo stanchi di questo schifo e, alla fine, divenne una questione “morte tua vita mea”.
Eravamo in tre, uno stava al posto guida, mentre noi due, cioè, me e un mio amico, ce ne stavamo nel retro del furgone. Ogni tanto uno di noi alzava lo sguardo a sbirciare la strada.
In giro non c’era nessuno, la strada spettava al silenzio e alla notte.
Una calma inquietante che solo una notte gelida di febbraio può regalarti.
Il vento soffiava un vento assiderato. Era venuto a benedirci con le sue bestemmie urlanti, facendo chinare gli alberi al nostro cospetto, come un ringraziamento di ciò che stavamo per compiere.
La mia mente generava pensieri astratti. La natura era dalla nostra parte.
Un freddo insidioso si assestò nel furgone, tormentandoci i muscoli, che non smettevano di tremare.
Mentre pazienti aspettavamo il nostro momento, ripercorremmo minuziosamente, il nostro piano.
Un piano efficiente, fatto di elaborazioni complesse e coordinate con una precisione maniacale, frutto d’un ossessione molesta capace di tenerti sveglio nelle ore più profonde della notte.
Oramai era mesi che programmavamo questo colpo, questa familiare vendetta , questo desiderio morboso, che logorerebbe la mente di chi non controlla i suoi pensieri, portandolo inesorabilmente alla pazzia più cieca.
Il nostro obbiettivo era un ragazzo che conoscevamo bene, (Anche se la parola bene, scritta nero su bianco in queste pagine, perde completamente ogni aspetto della sua essenza.) ma non così tanto da sapere le sue abitudini e i suoi spostamenti, e quindi lo pedinammo sia di giorno che di notte, come neri lupi delle montagne che studiano la preda prima di cacciarla. La stanza dove progettavamo questa virtuosa vendetta, che, altro non era che la mia cantina, era tappezzata di fotografie dove lo ritraevano intento ed ignaro nella sua quotidianità. Avevamo anche appeso una mappa della città dove segnavamo, scrivendo in parte l’orario e la data, i luoghi da lui più frequentati. Ogni minuscolo aspetto della sua vita era scritta da qualche parte in mezzo a tutte le scartoffie e documenti che riempivano la mia cantina.
Conoscevamo universalmente ogni cosa di questo individuo, lui invece, ignorava interamente tutto.
“ Sta arrivando…” Bisbigliò l’autista senza volgere la testa.
Alzai leggermente lo sguardo e sbirciai fuori, non per mancanza di fede, ma perché i miei occhi e il mio spirito volevano vederlo.
Alla vista di quell’ignobile, la rabbia mi morse lo stomaco, contraendolo come se fosse stato chiudo dentro una trappola d’acciaio.
Rivolsi uno sguardo complice al mio compagno facendogli un ammicco con la testa, lui contraccambiò consapevolmente.
Il momento era arrivato.
Il momento che stavamo aspettano con tanta fissazione da molti mesi a questa parte, era definitivamente arrivato. Noi eravamo qui, e lui era esattamente dove doveva essere.
Ispirai ed espirai velocemente, come se volevo rimuovere tutta l’ansia in un solo respiro, ci coprimmo il volto con i passamontagna, sui quali, avevamo disegnato il sorriso di un teschio, e celammo, dietro lenti scure, i nostri occhi. La teatralità era indispensabile per la riuscita del colpo. Erano, come piaceva chiamarlo a noi, i nostri disegni di guerra.
Come dei selvaggi con il volto pitturato per insinuare il terrore nella mente del nemico, volevamo trasmettere la paura più acuta, la paura dell’indefinibile.
Apparivamo come spettri di incubi innominabili, che si muovono di ombra in ombra. Silenziosi guerrieri del più decaduto esercito del male pronto a fare il dovere del supremo signore oscuro.
Eravamo tutti adibiti ad un compito particolare: L’autista guidava, il mio amico era incaricato di stordirlo con una mazza e io di addormentarlo definitivamente attraverso un fazzoletto imbevuto di cloroformio.
Ovviamente, all’origine del piano, ne io ne gli altri sapevamo qualcosa riguardante i rapimenti di persone, quindi, con un po’ di ricerche e un po’ di fantasia, trovammo il modo più efficace di realizzare questa impresa. Intere notti vennero spese al addestramento del coordinamento del progetto, attraverso allenamenti strazianti e snervanti degne solo dell’esercito spartano. L’autista personificava l’obbiettivo e dopo una serie di studi teorici e pratici, trovammo il modo più rapido e fluido per rapire una persona.
Ora, non pensavamo ad altro che alla nostra coordinazione, arrivai addirittura a sognarmele. Mi svegliavo nel cuore della notte e mi trovavo in piedi cercando invano di afferrare qualcuno.
Un ossessione che violentava anche il mio subconscio.
Aspettammo che avanzasse fin davanti alla porta di casa sua.
In media ci impiegava all’incirca dieci secondi ad aprire la porta, per via delle due serrature che la chiudevano, mentre Il nostro furgone, una volta avviato, ce ne avrebbe impiegati solo cinque a raggiungerlo.
Mi posizionai contro il portellone laterale, pronto ad aprirlo.
Il mio compagno si collocò davanti ad esso, con la mazza in mano.
L’uomo inserì la chiava nella prima serratura, e l’autista contò tre secondi, che erano il numero degli scatti della serratura, poi accese il furgone e partii veloce, lacerando il silenzio di quella nottata lugubre con uno fischio rabbioso delle gomme.
Lui si voltò appena, guardandoci di sfuggita, e continuò ad aprire la serratura, ma quando il furgone inchiodò davanti con rumore cupo e sordo, si vide il suo corpo irrigidirsi tutto.
Appena aperto il portellone, il mio compagno saltò giù e gli diede un colpo in testa con la mazza, facendogli sbattere la testa contro la porta. Mentre rimbalzava da quel colpo, stordito e confuso, io prontamente gli misi il fazzoletto imbevuto di cloroformio davanti alla bocca, mentre il mio amico, immediatamente, iniziò a legargli i piedi.
Dalla paura, quell’essere schifoso, fece ampi e profondi respiri e mentre, ancora lievemente si dibatteva, lo trascinammo dentro il furgone, che ripartii quietamente come se nulla avesse disturbato quella notte.
Sparimmo accompagnati dalle tenebre.
Quel bosco sembrava il figlio dell’incubo.
E il padre del delirio.
Un posto deformato dalla notte, ci regalava uno scenario oscuro, come se fossimo prossimi ai cancelli dell’inferno.
Solo la luna ci illuminava nei nostri intenti, mentre le stelle, impotenti, osservavano in silenzio.
Trascinammo fuori quella persona che una volta avremmo preferito evitare, ma che in quel momento, con mani e piedi legati apparteneva a noi.
Lo legammo con delle cinghie ad una specie di barella improvvisata, e mentre l’autista, con la torcia, faceva strada, io e il mio compagno lo trasportavamo.
Sdraiato su questa barella di metallo chirurgico, fredda come la pelle di un morto, cercava di dibattersi per liberarsi, ma era troppo stordito e sfinito per fare un qualsiasi movimento che potesse recarci preoccupazione, e dunque, si limitò semplicemente a muovere la testa da destra a sinistra producendo dei silenziosi gemiti, soffocati dal nastro che gli tappava la bocca.
I nostri passamontagna a teschio, continuavano a celare la nostra identità alla materialità del mondo.
I nostri occhiali da sole occultavano gli specchi dell’anima.
Era difficile, orientarsi dietro le lenti scure, poiché la debole intensità luminosa della luna era schermata e senza la torcia dell’autista ci saremo potuti fare veramente male.
Alla fine arrivammo in un spiazzo circondato da alberi spogli e morti, come se fossero degli tetri spettatori che silenziosamente morti, aspettavano di vedere il grande colpo di scena.
Tutto era stato sistemato due notti prima: al centro di questo spiazzo, sopra una terra fangosa e desolata, stava una sedia di legno con i bracciali ai quali avevamo attaccato delle cinghie. In parte ad essa stava un tavolo da campeggio, di quelli che si smontano e diventano una sorta di valigetta con tanto di maniglia, sopra, c’erano attrezzi di ogni genere, venduti a noi come oggetti del fai da te e usati da noi come strumento di tortura e di morte. C’erano pinze, trapani, siringhe, fiamma ossidrica, bisturi, coltelli e una motosega.
Il tutto ordinato in maniera maniacale, perfettamente allineati e ben disposti secondo la loro grandezza.
Mentre l’autista, illuminava la sedia, io e il mio compagno slegammo dalla barella questo essere schifoso, che nel momento in cui senti le cinghie allentarsi cerco di scappare, ma un pugno violento del mio amico lo colpii in pieno sul naso, stordendolo nuovamente. Alzammo il corpo di peso e lo legammo alla sedia. Poi, ne presi un’altra e la posizionai davanti a lui. Il mio compagno si sistemo alla mia destra, in parte agli attrezzi di tortura, mentre alla mia sinistra, con un fucile scarico in mano, stava l’autista immobile. Io mi sedetti sulla sedia ed aspettai che la lucidità di quella mente insignificante ritornasse in vita.
Avevamo accesso delle torce in modo che sia noi, che lui ci potevamo vedere chiaramente.
Presi a dargli qualche schiaffo leggero per parlo rinvenire. Quando apri gli occhi passarono tre secondi prima di rendersi conto in che situazione fosse, poi cominciò a tremare.
Il nastro copriva ancora la sua bocca e non l’avremo tolta per tutta la seduta, poiché nel suo passato aveva già detto troppo.
Era bloccato, e l’unica cosa che poteva fare era ascoltare, vedere e farsi consumare dalla paura.
Non era lui che doveva parlare, no. Lui doveva solo ascoltare.
I suoi occhi si muovevano nervosamente passando dall’autista, a me e al mio compagno in un moto che all’apparenza sembrava dovesse durare in eterno.
“ Guardami.” Dissi.
Lui posso i suoi occhi iniettati di orrore sulle mie lenti scure.
Cercò di dire qualcosa, ma l’unica cosa che usci erano rantoli di paura folle che mai aveva provato fino a quel momento.
La sua testa si scuoteva come un pesce fuori dall’acqua, i suoi versi erano troppo deboli per infastidirci.
Gli appoggiai il mio dito dove, dietro il nastro, c’erano dovute essere le sue labbra.
“ Ascoltami.” Dissi.
“ Tu non sai chi sono, tu non mi conosci, tu non ti ricordi di me, anche se dovessi togliere questo passamontagna, sono sicuro che non sapresti riconoscere la faccia che si cela dietro, ne la mia, ne quelle dei due miei amici qui dietro. Ma io so chi sei, e così anche loro. Sappiamo chi sei, o si… Ti conosciamo bene sai? Ci ricordiamo tutto di te. Dalla scuola ai nostri sabato pomeriggio in centro. La mia anima, la mia vita rovinata dall’insicurezza si ricorda bene di te. Non ti abbiamo mai dimenticato.”
Alzai la mano e il mio compagno mi porse una lama arrugginita.
Alla vista della lama, l’esser schifoso, si mise a frignare e a tremare.
“ Lascia che ti racconti una storia, non è una storia vera dall’inizio alla fine, ma è basata su tanti fatti di tante persone, realmente accaduti, e queste persone, a cui hai rovinato la vita finora, potrebbero riconoscersi tranquillamente. Questa è una storia che racchiude tutte le storie di quelle persone che ora, noi, in questa macabra azione, vendichiamo. Ma prima devo essere sicuro che sei lucido..”
Feci un cenno con la mano e il mio compagno rispose sferrando un pugno all’altezza dello stomaco di quel essere ripugnante.
“ Ci sei? Sei con noi? Mi stai ascoltando?”
Vedevo nei suoi occhi il dolore invadergli la testa, lo stordimento, le botte, il posto, i mostri che aveva davanti lo stavano mandando nel panico più assoluto.
“ Se mi stai ascoltando veramente, fammi cenno con la testa, altrimenti provo ad aprirti meglio le orecchie.”Lui rimase nel più totale terrore che solo negli incubi si può trovare un simile intensità.
Guardai il mio compagno. “ Dagliene un altro.”
Lui si irrigidì tutto, mentre il mio amico avanza a pugno serrato.
Mi guardò, producendo piccoli urli strozzati per attirare la mia attenzione e freneticamente dondolava la testa su e giù in segno di aver compreso.
Fermai il mio compagno.
“ Bene!” Dissi battendo le mani come se fossi pacifico e felice.
“Molto bene…”
“ Questa è la storia, di un ragazzo di otto anni, molto sensibile alla vita e con una grande voglia di studiare e apprendere. Questo ragazzo frequentava una scuola dove c’erano oltre a lui, molti e molti bambini. Alcuni calmi, altri agitati e giocosi ed infine quelli violenti, quelli che durante la ricreazione trovavano un qualsiasi pretesto per schernire e umiliare i compagni più deboli. Il ragazzo, essendo un po’ più sensibile a questo genere di cose, cercò da subito di girare al largo. Lui non voleva problemi, voleva solo leggere e starsene seduto pacificamente sulla sua panchina. Ma alla fine, come un fiume furioso, il ragazzo violento spezzò la diga immaginaria del ragazzo, per inondarlo dell’umiliazione più bruta e crudele. Oh… Quante lacrime ha versato quel ragazzo. Quanti pianti silenziosi ha fatto. Quanta paura ha provato, ogni volta che varcava la soglia della scuola. Andò avanti così, per tutti gli anni delle elementari facendo provare ad un bambino, semplicemente tranquillo, la paura più folle che un bambino non dovrebbe provare. Alla fine le elementari finirono e per il bambino si accese una speranza di una nuova vita nelle scuole medie, fatta di pace e tranquillità. Ma, a credere che tutto ciò fosse possibile, commise l’errore più grosso della sua vita. Perché anche li, un altro ragazzo violento lo stava aspettando per spezzare, oltre a lui, anche le sue vane speranze.
Ora l’umiliazione era diventata anche violenza, e le botte insieme alle parole distrussero la psiche di quel povero ragazzo, che altro non voleva se non una convivenza comune.
Iniziò a guardarsi allo specchio, sempre di più, sempre più intensamente, cercando di capire che cosa ci fosse in lui di sbagliato. E alla fine giunse a questa conclusione, che lui era sbagliato. Lui era un errore. Che la gente lo detestava, lo umiliava , lo picchiava. Lui era brutto e la sua immagine riflessa faceva solo schifo.
Ecco cosa un ragazzo di 13 anni pensava di se stesso mentre con le speranza oramai perse, varcava la soglia delle scuole superiori.”
Qui mi fermai. Senza smettere di guardarlo da dietro le mie lenti scure Iniziai a fagli roteare davanti la lama arrugginita.
“ Le hai mai fatte le superiori?” Chiesi. “ Ovviamente no, le persone come te, a quell’età, vengono attratte e prese dalla strada fino a trasformarvi in selvaggi decerebrati. Un po’ di pratica alle elementari e alle medie e poi via, verso la strada, i crimini e le risse, ed è qui che viene il bello di tutta la storia: Il ragazzino alle superiori inizio a sentirti leggermente più sicuro di se, ovviamente il fatto era dato dalla mancanza di ragazzi violenti nella sua scuola. Conobbe finalmente qualcuno con cui condividere le giornate, e man mano che l’autostima tornava anche la voglia di uscire per le strade del centro veniva. E il ragazzo, ancora una volta, si era illuso di essere al sicuro. Un giorno, mentre da solo aspettava l’autobus che l’avrebbe portato a casa, si affiancano a lui tre tipi. Lui quella categoria la conosceva già. Se li ricordava tutti. Sapeva riconoscerli. Quelle persone facevano tornare alla mente del ragazzino l’incubo delle scuole elementari e medie. E quei tre ragazzi sapevano riconosce la categoria a cui apparteneva il ragazzo.
I tre iniziarono da prima a prenderlo in giro, poi le parole divennero più volgari e alla fine, mentre le altre persone si giravano dall’altra parte facendo finta di non guardare, lo pestarono fino a rompergli il braccio. OH… il ragazzino si ricorda ancora il dolore e quell’infinito rientro a casa fatto di agonia e pianti smorzati. E si ricorda il pronto soccorso, il ricovero e l’operazione. La riabilitazione fisica duro sei mesi. La riabilitazione psicologica non avvenne mai. Mentre i tre ragazzi, dopo quell’ atto di violenza, continuarono a farne degli altri, il ragazzino si chiuse definitivamente in casa. I genitori erano troppo impegnati per curarsi di lui, e avendo disponibilità economiche pensavano che, facendogli prendere il taxi ad andare a scuola, tutto si sarebbe sistemato, ma no. Questo non fece che inabissare ancora di più l’animo di quel ragazzo. Divenne nero. Cinico. L’unico conforto che riuscii a trovare fu nei libri, nella scienza e nel sapere. Andò all’università, rimanendo schivo e asociale con le persone. Ovviamente per lui erano tutti nemici che volevano solo fargli del male.
Quel ragazzo, non si riprese più, e dopo due anni dalla laurea si suicidò perché aveva smesso di credere totalmente in se e nella sua vita. Fine della storia.”
A quel punto, il pugno del mio compagno lo colpii in piena faccia facendola voltare violentemente. Talmente violento che per un attimo credevo che gli avessimo spezzato il collo.
Una bollente rabbia mi sfiorò la nuca, facendomi alzare di scatto dalla sedia.
Persi ogni controllo. Tutto quello che avevo accumulato in tutti questi anni, esplose nella pazzia più selvaggia.
“ Tu non ti ricordi di me!!” Urlai
Presi la sedia e la feci volare sopra la sua testa.
“ Tu non ti ricordi di me! Tu non ti ricordi di come mi hai trattato! Tu non ti ricordi della violenza che mi hai fatto subire! Tu non ti rendi conto di quello che hai generato dentro di me!”
Il mio pugno gli centrò lo stomaco. Lui abbassò la testa dal dolore.
“ E sai perché non ti ricordi di me? O di lui, o di lui? Lo sai perché? Perché siamo in tanti! Perché i tuoi pugni hanno incontrato tante facce, tante ossa! I tuoi pugni hanno generato tanta paura! Ci hai distrutto psicologicamente! Per colpa tua, non ho creduto più in me stesso! Per colpa tua ho passato i miei anni migliori a nascondermi! A soffrire! A piangere! A scomparire!”
Gettai un urlo al cielo, e gli sferrai un altro pugno.
Sentivo la rabbia, la violenza scorrermi nelle vene!
La vendetta grondava sangue rappreso di tutte le vittime silenziose!
“ Noi rappresentiamo tutti quelli a cui hai rovinato la vita! Noi siamo in fantasmi venuti a porre giustizia nel nome degli oppressi!”
L’autista e il mio compagno iniziarono a tenergli ferma la mano destra.
Io andai al tavolo e presi un seghetto.
La mia voce, tornò calma. Pacifica. Tranquilla. Paurosa.
“ Oh… Quella mano, come me la ricordo bene. Quante volte ha colpito il mio naso, il mio stomaco, la mia schiena. Si… Me la ricordo bene. Quella mano è uno strumento del male e dobbiamo levarla. “
Andai davanti a lui, e mi accucciai per guardarlo negli occhi.
“ Tu credi che io sia pazzo vero? Beh, hai ragione. Sono pazzo. Per quanti anni ti ho pensato. Per quanti anni ho bramato questa vendetta. Oh… si… Tu mi hai reso pazzo. Tu, tu che ti credi più forte di me, perché sai picchiare la gente come una scimmia, come una animale… Ma ti voglio aggiornare su una cosa Tarzan, non devi mai sottovalutare la gente che studia. La gente che studia è molto più pericolosa della gente che ha vissuto in strada. E lo sai perché? Perché lo studiare ti rende astuto, ti rende un cacciatore, ti rende intelligente. E se il sapere che hai appreso, lo volgi per fare del male, allora, e dico solo allora, potrai servire il diavolo in persona.”
Recuperai un laccio emostatico e glie lo legai ben saldo appena sopra il polso.
Mentre toccavo il suo polso dissi: “ Tu sai, che quando, per paura della gente come te, mi sono chiuso in casa, ho studiato medicina? Eh vero! L’ho studiata tanto. Sai, ora mi sono anche laureato in medicina! Ora sono un dottore!! Sai, a parte le malattie, in medicina, ti insegnano anche a fare delle ottime amputazioni riuscendo a tenere in vita il paziente. Potrei amputarti tutti gli arti senza dissanguarti se lo volessi. Potrei farti arrivare anche ad ottant’anni. Ma no. Non è quello che voglio. Quello che voglio è la tua mano destra, ed ora, se permetti, me la prendo.”
Lui cerco istintamente di allontanarsi dalla sega che avevo in mano, ma era completamente immobile e l’unico gesto che fece fu di allontanare la testa.
“ Guardatelo come si allontana! Come un animale. Si, come uno schifoso animale! Perché altro non sei.”
La sega entrò nella carne e presto sentii l’osso del polso che faceva resistenza con la lama dentata, spinsi più forte mentre sentivo urli di agonia strazianti soffocate dietro il nastro adesivo.
Continuai finché non si stacco del tutto. Il sangue usciva a getti e presto si riverso per terra, creando una piccola pozza.
Andai al tavolo e presi la fiamma ossidrica.
L’usai per arroventare un coltello dalla lama spessa.
“Cauterizzazione. Quello che stai per subire si chiama cauterizzazione. Questa tecnica viene impiegata per arrestare fuoriuscite di sangue durante alcuni interventi chirurgici. Bruciando il tessuto viene prodotto calore il quale produce la coagulazione delle proteine dei tessuti organici circostanti la ferita, producendo così un effetto emostatico. Non trovi che sia magnifico il sapere?”
Mi girai verso l’animale e lui era svenuto. Feci cenno al mio compagno.
Lui gli tirò un pugno nei reni, gli prese la testa e gli disse di restare sveglio.
Quando vide il coltello arroventato, andò in iperventilazione. Poi, al momento in cui il coltello toccò la ferità svenne di nuovo dal dolore.
I fumi della carne arsa salivano in aria e mi riempivano le narici di un odore duro, aspro ma che sapeva di buono.
Sentivo la soddisfazione percorrermi il corpo come mai prima d’ora avevo provato.
Nemmeno alla mia laurea provai una simile sensazione.
Il mio cuore pompava e pompava e pompava. Sentivo una perversa felicità attraversarmi dentro.
La mia vendetta era quasi compiuta ed io ero esattamente dove volevo stare.
Davanti a lui completamente agonizzato e io con il coltello in mano, l’unica cosa che mi veniva era ridere. Iniziai a ridere trascinando dentro l’autista e il compagno.
Le risate risuonarono per tutta la foresta percorrendo ogni albero, ogni ramo, ogni filo d’erba.
Alla fine, quando l’animale si riprese, noi avevamo già sgomberato tutto a parte la sedia dov’era seduto.
Intorno a lui non c’era traccia di sangue e tutto era stato ripulito nella maniera più precisa.
Prima di partire, mi inginocchiai davanti a lui.
“ La tua mano,” Dissi. “ La tua mano rimarrà a noi. Ci appartiene. Ce lo devi.”
“Ora, non voglio essere l’autore del tuo destino, è giusto che ognuno di noi trovi da solo la propria strada. Come farai tu, sempre se riuscirai a liberarti. Noi ti lasciamo qui, per darti il tempo di pensare a tutte le tue colpe e cercare un modo ti espiarle. Patirai ed infine, se sarai degno di vivere, farai tutto quello che è necessario per tornare a casa.”
Tolsi gli occhiali e per la prima volta lui vide i miei occhi.
“ E se, tornato a casa, troverai la tua vecchia compagnia, tu digli che gli spettri sono in giro e che sappiamo chi siete. Tutti voi. Non fate più cazzate contro chi è più debole, altrimenti la gente inizierà a sparire e ci prenderemo le vostre mani e poi, continueremo con quelle dei vostri cari. Sono stato chiaro?”
Lui abbozzò un cenno. Ma il terrore era ancora signore assoluto nella sua mente.
Presto si sarebbe calmato ed avrebbe trovato un modo per tornare a casa.
D’altronde se non ci riesce un animale, chi può riuscirci?
Salii sul furgono con un senso di onnipotenza.
Una tale soddisfazione da procurarmi dei brividi.
Ogni cosa intorno a noi era come se ci appartenesse.
Il momento era nostro.
In quel preciso istante la terra era tutta nostra.
E si, gli spettri sono ancora in giro.
A tutti quelli che sono stati vittima di bullismo:
Non lasciatevi consolare.
Lasciatevi Ispirare
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Io sono quel vuoto che la gente colma con le proprie paure.